Da Stefano Paganini (Master in Digital Marketing Specialist).
Mai come in questi ultimi due anni, purtroppo caratterizzati da un evento negativo come la pandemia da covid-19, è stato trattato il tema della digitalizzazione.
La trasformazione digitale, dall’essere un argomento tecnico riservato a pochi, è diventato un fatto concreto e visibile nella quotidianità di chiunque.
Ma come sta influendo questa rivoluzione in corso nel nostro Paese che, dal punto di vista economico ed imprenditoriale, è sempre stato caratterizzato da realtà medio-piccole e piccolissime?
È lecito domandarsi se queste realtà saranno capaci di cogliere gli aspetti positivi della digitalizzazione o verranno tagliate fuori.
La situazione imprenditoriale in Italia
Nel 2020, secondo il “Rapporto Cerved PMI 2020”, in Italia erano attive 158.688 PMI. Di queste, circa 131.758 sono piccole imprese e 26.810 sono medie. Esse, insieme, rappresentano il 19,6% del totale delle imprese italiane.
Purtroppo, secondo il DESI, ovvero l’indice creato dalla commissione europea proprio per monitorare il progresso dei paesi europei in termini di digitalizzazione dell’economia e della società, il livello di digitalizzazione dell’Italia è al di sotto della media europea, occupiamo la 26ma posizione su 28.
Questo risultato ci dice che, nonostante la pandemia covid-19 sembra aver dato una accelerata a questo processo, la strada da compiere appare ancora lunga. Infatti, sembra mancare un approccio strategico di lungo periodo in grado di coinvolgere tutti i processi aziendali e il modello di business.
Effettivamente, benché l’80% delle PMI affermi di avere un proprio sito web, sono ancora poche quelle dotate di siti ottimizzati, performanti, mobile-responsive ed aggiornati. Inoltre, le aziende che puntano sul canale e-commerce e vendono on-line sono al di sotto delle media europea (il 10% contro il 17,5 %).
A tal proposito, gli investimenti in Internet Advertising risultano essere scarsi e, di conseguenza, risulta scarso anche l’utilizzo dei motori di ricerca e dei social media per generare ed intercettare traffico utile per promuovere la conoscenza della propria azienda e per tentare di ampliare il mercato.
Infine, c’è mancanza di personale dotato delle adeguate skills per poter implementare i processi di digitalizzazione e, soprattutto manca una vera volontà di cambiare.
Insomma, sembra che le PMI italiane stiano approcciando al tema dell’innovazione digitale in modo estemporaneo. Sembra esservi una seria lacuna dal punto di vista della cultura d’impresa. Soprattutto, sembrano mancare precise linee guida nazionali.
Lo scenario attuale rispetto alla digitalizzazione delle PMI
Quindi la notizia “cattiva” sembra essere che le PMI e il settore retail italiano siano in preoccupante ritardo rispetto ai processi di digital transformation.
La notizia “buona” è che sembra lecito aspettarsi un incremento di investimenti in questo settore. Tuttavia, occorrerà un notevole sforzo per cambiare uno dei fattori di maggior impulso all’adozione di nuovi modelli di business, ovvero la cultura aziendale e il modo di pensare del management di queste realtà imprenditoriali.
In questo contesto, il rischio che la digitalizzazione possa essere ad uso e beneficio solo dei grandi player dell’economia dotati di capitali per favorirne l’adozione, è dietro l’angolo.
Questo non è un trend passeggero: le PMI non possono esimersi dal prendere in considerazione questo cambiamento. Al contrario devono impegnarsi sempre di più per far fronte a questa “sfida”.
Perciò… come procedere?
Come dovrebbero agire le PMI per sfruttare la digitalizzazione
Il primo step è comprendere che ci sia un problema: i clienti non sono soddisfatti, le idee non si diffondono e si percepisce che si potrebbe migliorare qualcosa.
In secondo luogo, è necessario abbandonare la vecchia strada. Infatti, il marketing di massa ed utilitaristico, supportato da una domanda di mercato, non è più funzionale. Occorre invece abbracciare una strategia basata su empatia (cioè capacità di immedesimarsi nei bisogni/pensieri altrui) e servizio (durante il post-vendita).
Successivamente, bisogna abituarsi a mettere il consumatore al centro. Non occorre, quindi, essere orientati dal mercato, bensì al mercato in modo da ascoltarlo, influenzarlo, cambiarlo.
Una strategia vincente: lo Smallest Viable Market
Occorre prendere in considerazione un approccio diverso, in particolare quello consigliato da uno dei guru del marketing internazionale, Seth Godin: lo Smallest Viable Market. Ovvero bisogna considerare il numero minimo di persone che si ha necessità di influenzare perché lo sforzo profuso non sia vano.
Una volta individuata la dimensione, occorre trovare la porzione di mercato che non vede l’ora di ricevere la giusta attenzione, operando attraverso il principio della lean entreprendership (imprenditoria agile) e del minimum viable product (prodotto minimo funzionante). Questo significa che bisogna scoprire la versione più semplice e utile del prodotto, interagire con il mercato, migliorare e ripetere lo schema.
Ciò quindi che deve essere comprese è che il termine “viable” si basa sulla convinzione che rimanendo nella giusta dimensione si rimane agili, flessibili, pronti a rispondere alle sollecitazioni che arrivano dal mercato ed essere in grado di rispondere velocemente.
Si passa quindi dal “migliore per tutti” al “migliore per qualcuno”.
Infatti, il focus che deriva dallo smallest viable market permette di operare in modo che i prodotti/servizi offerti vengano percepiti come i “migliori” da una platea molto specifica di persone, ovvero da coloro che ritengono che gli si stia offrendo l’opportunità non di risolvere bisogni generici, ma il proprio.
Conclusione
Le discipline del marketing, in tutti questi anni, hanno aiutato le aziende a fare in modo che i propri prodotti/servizi fossero orientati a soddisfare uno specifico target, in modo da rendere la scelta di acquisto sempre più semplice. Peccato però che insieme al marketing si siano evoluti anche i consumatori. Questo comporta che non basta più “personalizzare” un prodotto, ma occorre renderlo “personale”.
In questo modo diviene più comprensibile cogliere il significato di “abbracciare una strategia basata su empatia e servizio”: individuato il mercato, entrati in sintonia con i consumatori, dopo aver avuto la possibilità di scegliere quelli che sono interessati a quello che l’azienda fa perché risponde ai propri desideri, bisogni, convinzioni, devo essere in grado di mantenere una relazione di lungo periodo con essi in quanto riesco a soddisfarli nel tempo, non si offrirà più solo un nuovo prodotto ma un servizio in grado di soddisfarli ogni volta che ne avranno o sentiranno il bisogno.
È evidente che una strategia del genere, quella del smallest viable market, è implementabile da tutti, non ha costi eccessivi, perché si trova all’opposto di quella su cui fondano i propri successi le grandi Big Tech per esempio. L’orizzonte non è il mercato mondiale, ma quel numero minimo di clienti in grado di rendere sostenibile e redditizio il proprio business.